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Archivio del surrealismo. Ricerche sulla sessualità III

9 Febbraio 2007

brigitte niedermairHa da poco fatto scalpore, all'ultima edizione del Sundance Film Festival, il documentario Zoo (girato da Robinson Devor e scritto da Charles Mudede, scrittore dello Zimbabwe)  su quello che il regista ha definito "l'ultimo tabù, al limite della comprensione": la zoofilia.
E' un film descritto come molto poetico e ben girato. Molto diverso da quanto ci si potrebbe aspettare, zoo spinge sicuramente lo spettatore a trovare il limite della propria accettazione morale, senza giudizi di sorta e partendo da un fatto realmente accaduto (descritto nell'articolo riportato più in basso) forza l'apertura degli occhi su un habitus diffuso in ogni paese e in ogni tempo. In questo senso è un film fastidioso.

06 maggio 1928*

ANDRE' BRETON: Nel corso di una precedente seduta abbiamo discusso molto brevemente sulla questione della zoofilia.Tutti i presenti si sono dichiarati ostili, affermando di non aver mai manifestato alcuna inclinazione di tal genere, per cui non era il caso di insistere.

JEAN BALDENSPERGER: Trovo invece che sia il caso di insistere, perché in me ciò è all'origine del godimento. Avevo un'asina, che vive tutt'ora, con la quale per un anno ho avuto rapporti molto intimi.

JAQUES PREVERT: Che età aveva?

JEAN BALDENSPERGER: 2 anni.

JAQUES PREVERT: E voi?

JEAN BALDENSPERGER: 14.

ANDRE' BRETON: Volete caratterizzare con la massima esattezza i rapporti in questione?

JEAN BALDENSPERGER: Avvenivano attraverso una camicia. Di solito, la aggiogavo, la conducevo nel bosco, poi le toglievo la parte della bardatura che sta dietro con la sensazione molto netta di spogliare qualcuno, e infine mi abbandonavo alle mie piccole passioni. L'aggiogavo di nuovo e rientravo a casa.

JAQUES PREVERT: E l'asina come si comportava?

JEAN BALDENSPERGER: E' questo l'aspetto molto interessante. I primi tempi era disponibile, ma in seguito si lasciava fare solo quando era in calore.

JEAN CAUPENNE: Che posizione adottavi? Salivi su una pietra? 

JEAN BALDENSPERGER: No, perchè era abbastanza piccola e io ero abbastanza alto. Solo dopo ho scoperto che ci si poteva masturbare da soli.

ANDRE' BRETON: Che genere di emozioni vi procurava tale atto?

JEAN BALDENSPERGER: I primi tempi, disgusto, e la paura che a casa se ne accorgessero.

ANDRE' BRETON: Cosa vi aveva spinto a scegliere questo animale piuttosto di un altro?

JEAN BALDENSPERGER: Lo vedevo più spesso. Succedeva sempre il martedì e il sabato prima della lezione di storia, perchè in quei momenti ero libero.

ANDRE' BRETON: Potreste ricominciare?

JEAN BALDENSPERGER: Non me ne importerebbe niente ma non mi disgusterebbe.

PIERRE UNIK: Non avete mai provato attrazione per altri animali?

JEAN BALDENSPERGER: C'era una capra. Ma accadeva assai di rado. Non la inculavo. In campagna è molto frequente questa zoofilia.

* Ricerche sulla sessualità, SE, Milano, 2002, pp.127-128

 

precedenti:

–> Ricerche sulla sessualità I

–> Ricerche sulla sessualità II

da Il Manifesto del 26-01-2007

Una cupa fiaba di redenzione

Applauditissimo al festival di Redford il film di Craig Brewer, «Black Snake Moan», con la presenza febbrile di Christina Ricci e Samuel Jackson nei panni del diavolo (lei) e dell'angelo nero (lui). E poi «Zoo», storia di amori proibiti fra uomini e animali
Giulia D'Agnolo
Vallan Park City

Christina Ricci furiosa e incatenata a un termosifone per quasi un'ora di film. È una delle scommesse che rendono piuttosto irresistibile la biblica fiaba di redenzione sudista Blake Snake Moan, presentata giovedì sera fuori concorso in una delle proiezioni più gremite e applaudite della prima settimana di festival. Il suo regista, Craig Brewer, era stato qui a Park City con un film facile da sottovalutare (nonostante la Paramount lo avesse acquistato per 10 milioni di dollari), ma che poi torna spesso in mente, Hustle and Flow – storia di un protettore con il sogno del rap (Terrence Howard) ambientato in una Memphis fatiscente e iperbolica. Un incrocio tra la blaxploitation classica e un'idea di cinema più sintetica, viscerale, sgranata.
Anche se le sue credenziali dal profondo Sud sono un po' ambigue (vive a Los Angeles da moltisSimi anni) è lì che il regista trova il suo cuore ed è lì che è tornato per questo suo secondo lavoro (prodotto come il primo da John Singleton e finanziato dalla Paramount Vantage). Dai vicoli decrepiti della città a una casa isolata nell'erba alta, dove Samuel Jackson coltiva verdure da vendere al mercato, il blues, un cuore spezzato (sua moglie se ne è andata con il fratello), parecchia rabbia e un rapporto con Dio.
Il corpo bianchissimo, seminudo, sanguinolento e inconscio in cui incappa una mattina, gettando la spazzatura, è quello di Christina Ricci. L'abbiamo vista all'inizio del film, una presenza febbrile, predatrice, aggressiva e vulnerabilissima, in jeans tagliati all'inguine e top tagliato subito sotto il seno, con sopra una bandiera sudista. Quando il suo ragazzo (Justin Timberlake) parte per l'Iraq, lei si butta in una sorta di rave/orgia, da cui esce – quando tutti sono andati a casa – torcendosi nell'erba lurida, e per nulla appagata. Quando, esausta, cerca di sedurre anche il miglior amico del boyfriend lui, spaventato, la pesta e la butta giù dal pick up.
Ricci si risveglia dopo giorni, sotto una coperta di lana rossa, a casa di Jackson. La sua prima reazione ricorda gli ultimi stadi di Linda Blair in L'esorcista. Perché, in quella sua disperata rabbia/voglia sessuale, il contadino vede prima di tutto il demonio. È merito dell'humor e dell'intelligenza di questi due attori (un match da sogno, anche vista la differenza di taglia) se il tutto non diventa supremamente ridicolo (e il terrore maschile della ninfomania solo un cliché). Lui la incatena a un termosifone lasciandole uno spazio di movimento di qualche metro.
Lei ha una furia tale che, insieme al calorifero arrugginito sembra capace di portarsi via la casa. Il duetto/duello fisico è molto bello. C'è anche di mezzo una bibbia. Come è bello quando la ragazza, rassegnata, si riaccoccola sul divano avvolgendosi nella catena come se fosse una (sensuale) coperta di cashmere. Politically correct, Brewer non lo sarà mai – anche se la seconda parte del film include un reverendo, dei vestitini a fiori a sostituire il top infame, il ritorno del boyfriend e la progressive riabilitazione della piccola erinni – ma il suo cinema ha una fisicità e una forza piuttosto insolite qui a Sundance. Quando, qualche mese fa, durante un'intervista, avevo chiesto a Samuel Jackson del film, aveva aveva fatto un sorriso grosso così e mi aveva risposto solo che, Black Snake Moan (il titolo viene da una canzone che lui canta mentre la cura), era un film fuori di testa.
È un oggetto controtendenza qui a Sundance anche uno dei documentari più belli visti (è in concorso), Zoo, di Robinson Devor, già al festival un paio di volte, l'ultima due anni fa, con un film di fiction bello e sottovalutato (non film mai distribuito perché parlato in africano), Police Beat .
Come Police Beat, Zoo è scritto da Charles Mudede, uno scrittore dello Zimbabwe che da anni tiene una rubrica sul crimine a Seattle. Mudede ma è anche autore di Last Seen e – prima della dissoluzione del gruppo – un membro del circolo di ricerca d'ispiraizone marxista Seattle Research Insitute. In Police Beat aveva adattato alcune delle sue column al monologo interiore di un poliziotto africano nelle sue ronde notturne attraverso la capitale dello stato di Washington.
Nel caso di Zoo, Mudede lavora sulle interviste ad alcuni dei protagonisti di un famoso caso di zoofilia esploso nel 2005, dopo che un uomo, abbandonato davanti al reparto d'emergenza di un ospedale del Nordovest, morì dissanguato a causa di un colon perforato. Partendo dalla targa della macchina che lo aveva portato al pronto soccorso, le autorità risalirano a un gruppo di uomini d'affari che regolarmente si riuniva per intrattenere rapporti sessuali con i purosangue di una fattoria poco lontana. Usando, come in Police Beat, la bella, lunare, fotografia di Sean Kirby, sullo staccato dei racconti individuali e su una serie di tratteggiatissime riscostruzioni drammatiche che ricordano una versione stilizzata del primo Erroll Morris, Devor trae dalla «cronaca» un film eccentrico, segreto, disturbante, di grandissima bellezza visiva. E un'idea personalissima del documentario.

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