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Obama, il jazz, il porno

26 Novembre 2008

Da diverso tempo avevo in mente alcune considerazioni circa il colonialismo, i neri, il razzismo; per forza di cose sono osservazioni del tutto soggettive. Nel tempo si sono sommati diversi elementi, cocci di un vaso in frantumi, che credo possano formare la traccia per un percorso di confusa riflessione. Non intendo tralasciare la provocazione pura e il gusto dell’iperbole, dell’esagerazione quasi gratuita, per provare a ridefinire un concetto abusato e mal interpretato quale il binomio razzismo-antirazzismo. Questo bizzarro percorso di degustazione della razza inizia dalla storia del jazz passa attraverso il neocolonialismo, intridendosi di storia della fotografia, fino ad arrivare senza grossi sforzi al porno, il tutto sotto il segno dell’opinione personale, orrendo vizio condannato da Platone. Mi scuso solo per la lunghezza della dissertazione che non è certo una mia caratteristica.

A a bronzatissimo
Come sempre arrivo tardi, ma arrivo. Mi risuona in testa, da giorni, la frase "Giovane, bello, abbronzato". Per Berlusconi Obama è questo. Rifletto su questa battuta, chiamiamola così, che puzza di razzismo; so che l’ha sparata grossa, ma qualcosa mi sfugge. Voglio credere alla buona fede del primo ministro (e credo che la provocazione inizi già qui), ma mi spiego.
Berlusconi è un uomo vittima della sua stessa proiezione catodica. Lui non si guarda in uno specchio, si guarda nella televisione, e la televisione è l’accesso all’immagine mentale che ogni cittadino ha di lui. Lui vede ciò che è nella testa dell’italico popolo bue. E’ una semplice questione di propaganda e vittime della propaganda. Berlusconi è pelato e nano. Vuole essere alto e capellone e in qualche modo (l’inganno estetico è qualche modo) ce la fa. Questo mi rende certo del fatto che Berlusconi invidi il colore della pelle di Obama. E lo invidia in quanto gli appare abbronzato. Esattamente come invidia il fatto che è più piacente di lui ed è pure alto e coi capelli, e lo invidio pure io! In definitiva: Obama non deve mettersi il cerone che si deve mettere il cavaliere. Allora dove sta lo sgomento rispetto alla battuta infelice uscita dal nano di Arcore? Forse che dire "abbronzato" in realtà è un non-riconoscere l’identità altrui, l’essere mezzo keniota di Obama, la sua negritudine, le radici, le radici su cui insisteva il Black Panther Party; è un’attitudine riduzionista e in quanto tale razzista, cioé non ne marca riconosce la differenza, la riduce a bizzarria estetica.
Avevo scritto "marca", ma credo che anche il marcare ad ogni costo sia elemento di razzismo. Sono cresciuto a pane e film di Spike Lee e non ho mai concepito il fatto che solo un afroamericano potesse chiamare "negro" un suo compare dalla pelle scura. C’è una divertente scena di questo tipo in Clerks 2. Cioé se un bianco dice negro, o parla di culo nero (Clerks 2),  allora è razzista, se lo dice un tizio con geni africani invece è "yo, cool, brother". Non ci siamo, proprio. Il moralista non dice mai "negro", si sente sporco e colonialista, fino a fine anni ’80 lo dicevamo tutti, poi magari quando vede la famiglia di senegalesi agghindati per la festa li guarda come fenomeni di esotismo altermondialista… e "come ci si diverte alla Festa dei Popoli". Se un tedesco mi taglia la strada, lo appello mangiacrauti di merda, o crucco. Se un africano mi taglia la strada in auto a cosa penso? Prendo la prima differenza tra me e lui, il colore, lo amplifico, e ci aggiungo "di merda". Non mi sento razzista per questo, mi sento razzista se penso "negro di merda" e me lo rimangio perché sono di sinistra. Poi scendo e ci faccio a pugni, come se fosse un tedesco abbronzato…
Il razzismo nasce quando marco una diversità fisico-culturale o quando la annichilisco del tutto e a tutti i costi. Vizi rispettivamente di destra e di sinistra. Il meccanismo è molto più sottile di quanto si immagini. Il povero Gramsci, e l’ho già scritto da qualche parte, diceva che la cultura non è borghese, è l’uso che ne fa la borghesia a renderla tale.

Josephine Bakeril jazz
Prendiamo il Jazz e la sua storia, in soldoni. Nasce nero, assolutamente nero e come tale viene trattato per qualche decennio dopo la sua nascita. C’è una bella mostra al Mart di Rovereto su l’iconografia nella storia del jazz, mi è stata di supporto a queste considerazioni. Prendiamo un vettore di stereotipi per le masse: il cartone animato. Nel 1937 (quindi un anno prima del manifesto della razza in Italia) Friz Freleng firma cartoni sul jazz nero in cui vengono ritratti personaggi afroamericani dai tratti lombrosianamente scimmieschi. In Clean PasturesGoldilocks and th Javin’ Bears, del ’44, vengono ritratti gli stereotipi dell’afroamericano pigro e dedito solo alla musica, voce roca, labbroni e prognatismo da primate. Sicuramente molto lontani dall’immagine di un Obama, bello, abbronzato e presidente della più grande potenza mondiale, dopo la Cina. Negli stessi anni Josephine Baker, in Francia, era la prima ballerina "esotica" ad incantare il pubblico bianco. Le sue rappresentazioni erano sempre a tema esotico, come il ballo delle banane, e forse questo le permise di mostrare i primi lembi di carne. Il senso è che lei poteva farlo perché era in qualche modo una "primitiva". Guai a dirlo però. Josephine Baker fu il primo sogno erotico degli anni ’20 europei, i bianchi vedevano il suo corpo nudo come il luogo del desiderio, un jungle dream bagnato di sudore tropicale, e del diritto di appropriazione, una colonia del desiderio; era la realtà, il concretizzarsi di quelle foto che arrivavano dalle colonie in cui venivano ritratte le native con i seni scoperti… il richiamo della semplicità primitiva. "Fuggo alla fatica, penetro nella natura" questo era il sogno che Paul Gauguin realizzò e che preme(va) nell’inconscio collettivo della società europea che tastava e testava la prima industrializzazione e il familismo culturale.
Josephine era la prima venere nera, la prima di una lunga serie di veneri da cabaret. Più di un secolo prima di lei, Sartjie Baartman, era un’altra la venere, la venere ottentotta, con grosso sedere (steatopigia) e vagina dalle grandi labbra (macroninfia), caratteristiche accentuate tra i boscimani ma presenti in diversi gradi in tutte le donne. Mai dimenticare la povera Sartjie. La venere della razza, da mostrare, da esporre nelle fiere, negli zoo umani dei circhi Barnum, a marcare la sua abissale diversità. E alla sua morte tutte le sue diversità saranno messe sotto formaldeide e ancora esposte. Entrambe queste figure femminili, seppur con fortune distinte, sono il simbolo del paternalismo colonialista, lati della stessa medaglia della nuova cultura novecentesca. Il destino di queste due donne segna quel passaggio fondamentale dal "selvaggio" all’"indigeno", il passaggio che va dal quel positivismo che permise il razzismo-scientifico alla conquista dei territori, Il passaggio che porta dal negro al nero.
Il jazz era nero, si diceva, ed ebbe una portata assolutamente rivoluzionaria catapultando la comunità afroamericana sul palcoscenico del divertimento, al centro dell’attenzione dei bianchi. Si parlò di Harlem Renaissance. Anche gli ex-schiavi potevano godere nelle modalità dei loro ex-padroni bianchi. Ed erano nere le band che suonavano nei locali dei bianchi e nel giro di poco tempo fu commistione. Vi ricordate i cartoni razzisti della looney tunes? Ora i tre pigri orsi negroidi sono diventati tre rosei porcellini jazzisti e con il tempo verranno superati gli stereotipi fisiognomici, almeno in parte, perché i negri continuano a fare della gran musica semplicemente perché ce l’hanno nel sangue. Ma perché questo mutare di prospettiva? Per appropriazione, Marcuse l’aveva spiegato bene. Per colonialismo culturale. Ecco dov’è il razzismo nella frase di Berlusconi: Obama è figo e fa il presidente degli Stati Uniti… è abbronzato, cioé ha fondamentalmente le doti di un bianco, mentre un nero non potrebbe essere alla sua altezza. Un africano con il seguito di Obama farebbe sicuramente più paura (vedi le sorti di Malcolm X, Angela Davis o Huey e Seale). Anche qui sta la chiave del successo di Obama. I bianchi lo vedono un po’ bianco, i neri un po’ nero, Ognuno prende ciò che gli fa comodo… pur rimanendo un’arma a doppio taglio perché se qualcosa va male per i neri diventa un bianco e per i bianchi diventa un nero, è la solitudine dei mulatti!
Sono rimasto piuttosto sorpreso scoprendo che Ebony non è solo un genere dell’hard oggi in voga ma nasce da una rivista del secondo dopoguerra dedicata alla borghesia afroamericana. Ebano, il colore della pelle più invidiato in assoluto. Attenzione: non nero, ebano; ovvero un nero edulcorato. E non credo sia una scelta di puro realismo cromatico, è comunque una forma di alleggerimento del terrore dell’uomo NERO con cui ci hanno cresciuti. Non siamo brutti e neri, siamo belli ed ebano. Quando si tratta di rivendicazione politica, non a caso, si parla di Black Power, quando si parla del bel colore della pelle allora diventa ebony, non è forse lo stesso concetto di abbronzato? Su una copertina di Ebony c’era il faccione di Louis Armstrong e la didascalia riportava: "Perché mi piacciono le donne con la pelle scura". Credo la didascalia fosse degna di una rivista del Ku Klux Klan, o, per rimanere a casa, a gruppi padani in stile "bira, figa, pearà". Il separatismo è razzista, in ogni ambito, anche quando non parla di elementi razziali. Perché alle volte non ci si rende conto di quello che si sta dicendo finché non si utilizzano termini opposti e non si cambia prospettiva. Su una maglietta era impresso: "How’s God? She’s black". Mi colpì molto e capii che è fondamentale torcere il punto di vista.  

cartoline di guerra
Nell’immediato dopoguerra postfascista Heilé Selassié I fece una visita di riconciliazione in Italia. Mostrarono all’ultimo negus il Museo africano, ovvero l’ex Museo coloniale fascista. In un corridoio l’imperatore etiope si ritrovò di fronte ad una sequela di immagini di donne ignude, veneri nere etichettate come sciarmutte (nome con cui i coloniali chiamavano le prostitute africane). "Il negus chiese ad alta voce e in buon francese, se il presidente della repubblica ospite avrebbe giudicato di buon gusto trovare esposte nel museo imperiale di Addis Abeba, come documenti antropologici per illustrare i tipi delle donne italiane, o peggio ancora come trofei del vincitore, le fotografie delle prostitute italiane che popolavano, in quel dopoguerra, i bordelli della capitale della città"*. L’impresa coloniale italiota diede forte impulso al fiorire di "cartoline postali" in cui venivano mostrate donne locali a seno scoperto e didascalie del tenore: "tipo etiope". In realtà la maggior parte dei "tipi etiopi" femminili erano prostitute di Massaua fotografate in un improvvisato atelier all’aperto… all’aperto di un sifilicomio dove erano ricoverate le donne appestate dai giovanotti del belpaese. La mamma aspettava loro con gli spaghetti in mano e la veletta in testa, loro decimavano la parte femminile del corno d’Africa con il treponema pallidum che si portavano dietro dai bordelli del duce. Questa frenetica attività fotografica alimentò lo stereotipo erotico della donna africana vogliosa, insaziabile e disponibile di cui parlano con gran dettaglio Gabriella Campassi e Maria Teresa Sega nel testo Uomo bianco donna nera**. Forse è questo che a spinto gli autori del solito calendario pirelli ad andare in Africa riproponendo il modello della donna selvaggia. Come detto prima, si creava il mito della venere nera. Un altro mattone nell’edificio del razzismo bianco.  

Ghetto Sluts
Un mito in realtà mai tramontato, quello della venere nera. Le cartoline postali che ritraevano le etiopi sono oggi le ghetto sluts. La descrizione copiata da un sito preso quasi a caso è eloquente e assolutamente in linea con il desiderio coloniale creato attorno alle sciarmutte abissine: "I love to hunt these black sluts, give them extreme throat jobs till gagging while treating them like shit. They always seem to love it and beg for more." Il corpo della prostituta del ghetto, uno spazio postcoloniale, abitato da indigeni di altri paesi ma in realtà "nostro", è un corpo caricato di libidine, da cacciare e abusare… quello che non nessun padre di famiglia farebbe mai con la propria mogliettina, ignara che tanto poi va a campi con ragazze nigeriane, ghetto sluts. Il potere simbolico non cambia, a distanza di un secolo, cambia solo la forma e la forza rappresentativa dell’immagine.
Un aneddoto, che preso a sé, potrebbe sotituire il presente post: casello di Brescia ovest. Nella macchina che mi precedeva, guidatore autoctono, passeggera di colore. Sulla targa l’adesivo del sole padano. Questo siparietto non aggiunge nulla che non sia risaputo, è solo un paradigma, una manifesto politico sociale di sfruttamento.

postcolonie
Arrivo alla conclusione-provocazione, quella vera: gli stati africani non si sono mai liberati veramente del colonialismo. L’imperialismo ha cambiato volto, e non poteva essere altrimenti. Rimane lo sfruttamento che c’era prima, rimane la povertà, non ci sono ancora i diritti che le popolazioni auspicavano. Una terra da sempre saccheggiata laddove offra dei frutti e abbandonata a se stessa laddove sia arida. Pochi paesi hanno cambiato il loro volto. Il Senegal forse, il Sudafrica con tutte le sue continue contraddizioni razziali. Prendiamo il caso emblematico del Congo. Da anni il paese è in mano ai signori della guerra, armati e protetti da qualsiasi paese capitalista dell’emisfero nord del pianeta, Cina compresa. Tutto per l’accesso costante e a prezzo ridotto a cinque minerali chiave: coltan, diamanti, rame, cobalto, oro. Tutti bei prodotti che finiscono in qualsiasi arnese elettronico che noi usiamo ogni giorno. La situazione non è risolvibile, perché il problema è tutto dei paesi che guadagnano su questa situazione e che sarebbero quelli che a parole vorrebbero vedere risolta la questione. Un corto circuito.
Prendiamo il Ruanda ora. Recentemente è saltato fuori che quella che ci avevano venduto come guerra "etnica" tra Utu e Tutsi era in realtà alimentata dall’amministrazione Mitterand che sperava di riguadagnare l’influenza francofona a spese degli anglofoni Tutsi. La provocazione è questa: non sarà, a questo punto, auspicabile un ritorno delle colonie? Voglio dire, una potenza come Inghilterra o Francia, avrebbe alimentato costanti genocidi tra la popolazione? Avrebbero permesso che in un loro appezzamento africano si morisse massivamente di fame? Io non credo. Se un territorio viene sfruttato da una potenza coloniale o da cento potenze capitaliste che alimentano guerre e sangue, francamente, mi pare che il colonialismo sia una scelta un po’ più coerente e rispettosa e indice che non c’è mai stata una seria e profonda decolonizzazione. In altre parole: a fronte di un immutato sfruttamento di risorse e popoli e ad un razzismo impossibile da eradicare e di fronte ad un colonialismo culturale mai superato, forse gli africani stavano meglio quando li facevamo star peggio.

 

 

–> approfondimento: Elisabetta Bini Fonti fotografiche
e storia delle donne: la rappresentazione delle donne nere nelle fotografie
coloniali italiane

–> foto di Thierry Le Gouès amazzoni

* Ando Gilardi, Storia della fotografia pornografica, Mondadori, Milano, 2002, p.229 

** in Rivista di storia e critica della fotografia, numero 5, 1983

  1. Gabrihell
    26 Novembre 2008 a 14:38 | #1

    Scrivi ad intervalli lunghi, ma quando lo fai hai davvero qualcosa da dire. E lo dici molto bene.
    Saluti

  2. 27 Novembre 2008 a 0:18 | #2

    Non e’ propriamente a tema ma credo valga la pena segnalare ugualmente l’articolo “Your Big Dick Host is the name of a Brooklyn sex party proprietor” comparso sull’ultimo numero (#24) di BUTT http://buttmagazine.com/

    L’intervista e’ a cura di Michael Bullock a “The Big Dick Host”, il creatore di una serata Thugs 4 Thugs (difficilmente traducibile in italiano ma sostanzialmente riservata ai soli maschi mascolini neri) a Brooklyn di cui si puo’ trovare qualche scarna informazione sul sito http://thugs4thugsex.com/ .

    L’articolo e’ particolarmente interessante per analizzare parte del vissuto e del modo di ragionare delle persone omosessuali nella comunita’ nera di New York senza scadere nell’accademico o nel noioso. Tra qualche mese dovrebbe essere disponibile l’intervista completa sul sito della rivista, nel frattempo se vi capita di trovarla in giro o di comprarla vale la pena di darci un’occhiata.

  3. Klem
    27 Novembre 2008 a 21:49 | #3

    Intelligente, ben scritto e molto interessante.
    Bentornato Fastidio.

  4. qq7
    28 Novembre 2008 a 22:00 | #4

    Beh che il genocidio rwandese fosse un affare solo tra tutsi e hutu e non avesse ‘influenze’ esterne (soprattutto francesi) lo si è fatto credere solo a chi l’ha voluto credere…

    ti leggo comunque con piacere pure dal Burundi

    cià

  5. luca
    30 Novembre 2008 a 15:17 | #5

    molto interessante caz

  6. 30 Novembre 2008 a 21:58 | #6

    molto interessante ed acuto. aggiorni poco, ma ogni volta rimango stupito!
    mi sono permesso di copiare la prima parte dell’articolo sul mio blog e di mettere un link a quello originale per leggere il resto. 🙂

  7. fastidio
    1 Dicembre 2008 a 8:55 | #7

    nessun problema, copia ciò che vuoi.

    aggiorno poco per limitare l’entropia della rete… ci sono così tante cazzate che aspetto che due neuroni cozzino generando un’idea apprezzabile e sopportabile.

    per i complimenti, ringrazio tutt*, ovviamente fa piacere e sprona a continuare a postare, di tanto in tanto

  8. 2 Gennaio 2009 a 11:15 | #8

    > Il razzismo nasce quando marco una diversità fisico-culturale o quando la annichilisco
    > del tutto e a tutti i costi. Vizi rispettivamente di destra e di sinistra.

    Ecco!
    Nel momento in cui modifichi (in ogni senso, anche edulcorandolo) il giudizio etico sugli atti e sui comportamenti di una persona, diventi razzista.

    Pagina importante, apprezzo la libertà del pensiero.
    Infine, sono distratto molto dalla venere nera in fondo alla pagina o da quelle abissine. Come maschio sento tutto l’esotismo e l’erotismo della Shakti, della Femmina, l’attrazione ancestralle della Dea. questa volta con i tratti della bellezza d’Africa

    AMan

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