Home > nippodelirium > ero-guro

ero-guro

4 Gennaio 2007

Riprendo di brutto da questo blog una scena topica per capire di che cosa tratti il genere ero-guro (ero guro nansensu derivato dall'inglese erotic grotesque nonsense). E' estrapolata dal film Guts of a Virgin (Shojo no harawata, 1986) diretto da Kazuo 'Gaira' Komizu. L'audio è desincronizzato.

–> altri trailers 

–> articoli recenti sul cinema ero-guro

http://www.dailymotion.com/swf/1TDaSDm49Kg4q6lKb

 

–> ARTICOLI TRATTI DA IL MANIFESTO DEL 31 DICEMBRE 2006 <–

Rampo, l'erotico Poe del Sol levante
Idi Amin Dada, come Saddam: la storia di cosa accade quando ci sono pesanti interferenze esterne su un paese Forest Whitaker su «L'ultimo re di Scozia»
Hirai Taro (1894-1965 ) Personaggio cardine della cultura giapponese dalla letteratura, ai manga fino al cinema più recente

Matteo Boscarol
Alessandro de Mitri

Tokyo


Edogawa Rampo, al secolo Hirai Taro (1894-1965 ) è uno di quei personaggi cardine, su cui girano e si sviluppano intere parti di una cultura, in questo caso quella giapponese degli ultimi 50 anni, dalla letteratura, ai manga fino al cinema, la sua influenza, anche dopo quarant'anni dalla scomparsa, è più viva che mai e pulsa specialmente dagli schermi cinematografici.
Ma andiamo con ordine. Nato nella prefettura di Mie, nel Giappone centrale, si trasferisce a Tokyo nel 1912, città che lo vedrà animatore di una serie di attività frenetiche e variegate fra cui quella della scrittura. Fortemente influenzato da E. A. Poe, Edogawa Rampo è infatti la translitterazione in giapponese del nome del grande scrittore americano, è stato un erratico viaggiatore ed è considerato l'esponente principale del mystery giapponese, inserendo all'interno del genere una caratteristica nota di cupezza venata di erotismo, che in seguito verrà denominata ero-guro (erotico-grottesca). La sua è una scrittura di ossessioni e manie sapientemente coniugate con l'uso della deduzione logica e caratterizzata da un concetto estetizzante del crimine e da atmosfere ossessive e morbose, un sentire che ricorda, fra gli altri, il primo Tanizaki.
Sono proprio queste atmosfere che hanno attratto il mondo del cinema all'universo di Rampo, ricordiamo tra i primi film ispirati alla sua opera Edogawa rampo taizen: Kyofu kikei ningen di Teruo Ishii che poi nel 2001 avrebbe ripreso dei racconti del nostro per girare Môjû tai Issunbôshi . E ancora come non ricordare nei più di trenta film girati su storie di Rampo, Sôseiji («Gemelli») di Shinja Tsukamoto e fra gli ultimi, presentati al Far East di Udine, Rampo Noir, un film a episodi e Assassinio alla salita D, del veterano Jissoji. Ossessioni, morbosità quindi, ma il tutto, nella scrittura di Rampo, viene espresso nel pieno rispetto dei canoni del poliziesco del periodo, con un sapiente dipanarsi dell'intreccio e mantenendo la suspance fino ai colpi di scena decisivi per la decifrazione finale.
Il successo arriva fin dalle prime pubblicazioni nel '23 e si mantiene inalterato con la produzione alternata di racconti e romanzi, ricordiamo almeno Assassinio alla salita D., Il test psicologico, La poltrona umana, Brulicare nelle tenebre, Il bruco. Titoli significativi di una produzione che verrà interrotta durante gli anni del militarismo al potere, reagendo alla censura, per poi riprendere incessante nel dopoguerra creando fra l'altro il famoso personaggio di Akechi Kogoro, il suo Sherlock Holmes, che unisce una ferrea capacità deduttiva a una natura di eroe positivo e tenace. Nel dualismo tracciato all'interno del genere tra storie quasi giornalistiche, tradizionali (Honkaku), dove il bene punisce il male con l'aiuto della logica, e storie più ambigue (Henkaku), dove l'investigatore rivela le sue debolezze e la presa di posizione nei confronti del criminale si fa più ambigua e emotiva, Rampo si scava una nicchia del tutto personale nella letteratura giapponese e non.
La modernità dell'outsider Rampo, sospeso tra la tradizione e la cultura europea, è figlia della modernità delle epoche Meiji e Taisho e di una doppiezza personale, un'esistenza erratica e inquieta da un lato e la mania catalogatoria di formare dei club dall'altro, tra il fascino dell'irrazionale e la quieta logica positivista. Doppiezza storica e sociale dove il nuovo Giappone, meditando e applicando teorie occidentali al suo modello di ordine, importa anche il lato oscuro della società moderna e lo riconosce congruente ai bassifondi della precedente società Tokugawa in un processo duplice di importazione e assimilazione. Segno doppio anche nelle lettere, tra la compostezza logica e rigorosa dei racconti, chiusi e positivi, e l'esplosione del sommerso nella struttura aperta del romanzo, con la sottolineatura del grottesco, del deviante, del carnale.
I miti del progresso, del potere della logica, della società integrata, del crimine come deviazione, si scolorano; la fantasia (malata), anarcoide, non inquinata da ideologie politiche rende Rampo non un ideologo quanto piuttosto uno specchio per tutte le stagioni, in un'attualità che si palesa ogni volta che una crisi sociale fa emergere il lato oscuro. Caleidoscopio della carne oltre le sue stesse intenzioni, più morboso che visionario, incita piuttosto alla visione ed è qui forse il segreto del suo irradiarsi, del suo completarsi principalmente nel mondo del cinema, che ne svela così l'anima più segreta. Nelle sue storie se anche la giustizia trionfa, ciò avviene in quanto vi è il riconoscimento dell'avversario non previsto dalla teoria del progresso, non vi è sconfitta ma disvelamento delle pulsioni non necessariamente vitalistiche come nell'erotismo, ma insite nella vitalità in una sorta di rassegnato nichilismo, testimonianza dell'esistenza di un inframondo che richiede diritto di (bassa) cittadinanza sia a livello psicologico che sociale. Nella scrittura di Rampo si aprono piccoli o grandi abissi, talvolta rinchiusi dalla logica, talvolta lasciati intatti allo sguardo del lettore.
Duplicità e esistenza dell'ombra non a caso sottolineate dai titoli (Il mostro cieco, La belva nell'ombra, Il verme), matrice sempre applicabile nei tempi di rivolta ('60 e '70), guida che parla all'orecchio, insinua, invita, guida altre interpretazioni e in questo senso sarà sempre il cinema come mezzo visivo a dare a ognuno il suo Rampo. I mostri, che siano dentro di noi o a attenderci dove non vi è luce, sono sempre rinnovabili.


 

Le allucinanti premonizioni del maestro Teruo Ishii
Senza regole Al regista di culto il Cinemaskhole di Nagoya, fondato da un altro ribelle come Koji Wakamatsu, ha dedicato una breve ma intensa retrospettiva. Da «Horror of a deformed man» fino a «I piaceri della tortura»
M. B.
Tokyo


È passato oramai quasi un anno da quando Teruo Ishii, regista di culto del cinema nipponico, se n'è andato lasciandoci come testamento filmico quasi un centinaio di film, traccia indelebile della sua enorme creatività e versatilità. Ci riferiamo soprattutto a quelli realizzati a cavallo fra gli anni sessanta e i settanta che, pur se rivisti oggi, niente hanno perso in freschezza, singolarità e inventiva. Proprio in occasione di questo anniversario il Cinemaskhole di Nagoya, fondato da un altro cineasta ribelle come Koji Wakamatsu, muovendosi in anticipo su tutti, gli ha dedicato una breve ma intensa retrospettiva che ha portato nel piccolo cinema centinaia di appassionati di vecchia data e numerosissime giovani ragazze, sempre pronte a rispondere al cinema che conta. A aprire le serate è stato il famoso Edogawa ranpo taizen: Kyofu kikei ningen («Horror of a deformed man») del 1969, già passato a Venezia, uno dei film più allucinati e privi di regole mai visti sugli schermi. Ispirato da varie novelle di Edogawa Rampo (translitterazione di Edgar Allan Poe, nome con cui il romanziere dell'incubo e del mistero Taro Hirai si faceva chiamare) è, detta in due parole, la storia pseudo-poliziesca di un uomo e dell'isola dove lui stesso ha costruito il suo riparo di follia. Ma il film, che comincia in un manicomio, si disintegra man mano che procede, fra momenti di assoluta ilarità e attimi di delirio grottesco che non cadono però mai nel trash, anche se lo sfiorano. Qui sta forse la bravura di Ishii che riesce a dare, se non un ordine, almeno un senso alla potenza del caos evocata e messa in scena da Tatsumi Hijikata l'iniziatore della danza butoh e nel film uno dei protagonisti. Si vedono così le cose più assurde: una donna candelabro, un'altra attaccata a una capra, due amazzoni acquatiche e una serie di figure bestiali rigorosamente in bianco. Ma tutte hanno la loro peculiare poetica e sembrano venir fuori dalle zone più profonde e storpie di noi stessi, dal quel buio del quale lo stesso Hijikata suggeriva di cibarsi con tutto il nostro corpo. Ecco, tutto questo più le ossessionanti storie di Rampo è reso con il tocco magico di Ishii che le fa rimanere in bilico e danzare con un'abbondante dose di grottesco che fa coesistere una storia d'amore, un simil-horror e un poliziesco come fosse la cosa più naturale al mondo e il tutto si conclude nell'ultima scena in cui all'apice della drammaticità si vedono gambe e braccia scoppiare in cielo, quasi un rimando al godardiano Pierrot le fou.
Il secondo film in programma è stato Tokugawa Onna Keibatsushi noto in Occidente come The joys of Torture e forse il più bello visto in questa rassegna già dalla scena iniziale dove si vedono donne bruciate vive, decapitate e lacerate in due pezzi da dei buoi e che è davvero girato magistralmente, dagli interni ai primi piani dei volti sfigurati dal dolore e dalla pazzia. È un film sul possesso, sulla follia che questo genera e sulla bellezza di questa follia, indimenticabile la parte ambientata in un monastero femminile, così freddamente violenta, punteggiata dalle risate isteriche delle donne, eppure a tratti, nelle scene di amore proibito, così eterea e sognante.
Bella sorpresa è stato vedere anche Porno jidaigeki: Bohachi bushido del 1973, un chambara-eiga tutto sui generis, dove anche se tutti i canoni del genere sono rispettati, dal coraggioso samurai, al cattivo fino alle bellissime scene dei combattimenti, la presenza attiva delle donne, dei loro bellissimi corpi, delle loro voci e del loro erotismo da uno spin diverso al film, cambia lo sguardo che si posa sull'immagine facendo fuggire i significati soliti e regalando ai colori una fluidità che nel finale, come sempre nelle visioni di Ishii, lo trasforma in un chambara-eiga onirico.
Pressappoco lo stesso andamento si è visto anche in un altra opera presentata a Nagoya, Kiiroi fudo del 1961, opera poco nota girata dall'allora trentasettenne Ishii, poliziesco abbastanza convenzionale, peraltro molto godibile come quasi tutti i suoi film, dal tono leggero dove c'è un giornalista che insegue un assassino ed è a sua volta inseguito. Ci sono tutti gli anni sessanta giapponesi nella pellicola, il paesaggio nipponico che stava cambiando, la tradizione ma anche l'influenza occidentale e tutto va avanti liscio fino agli ultimi cinque minuti finali dove con uno scarto tipico di Ishii, la scena si sposta ai piedi del monte Fuji (lo stesso posto usato da Wakamatsu per la famosa scena dell'esplosione in L'estasi degli Angeli) e cambia di tono, diventa drammatica. Ma ciò che è drammatico non è tanto la trama, il protagonista si trova in una zona usata per le esercitazioni militari e cerca di scappare assieme a una donna, ma l'angoscia che il regista riesce a creare in pochi minuti, un angoscia senza motivo, una paura totale.
Che sia forse stata una premonizione inconscia sul destino che il Giappone, di lì a qualche decennio, avrebbe intrapreso inevitabilmente senza possibilità di ritorno?


 

Ankoku Butoh, la danza delle tenebre di Tatsumi Hijikata
Il corpo di carne Radicale performer in una Tokyo in rivoluzione tra scontri in piazza e resistenza contro il dominio americano. Collaborò con alcuni registi d'avanguardia da Eiko Hosoe a Teruo Ishii
M. B.
Tokyo


1968-1969, Tokyo, Giappone. Tempo di rivoluzione, tempo di resistenze contro il dominio americano, scontri in piazza, manifestazioni, violenza, zengakuren, Genet, Oshima gira Shinjuku dorobo nikki, Wakamatsu Shojo geba-geba, Matsumoto Toshio Bara no soretsu. È in questo clima teso, creativo per necessità che l'Ankoku Butoh (la danza delle tenebre) si afferma nei teatri, ma anche per le strade di una Tokyo in rivolta. Iniziato circa un decennio prima dall'incontro di due danzatori, Kazuo Ohno, il talento puro, l'uomo toccato dalla grazia, e Tatsumi Hijikata, il più cupo, il più freddo e forse il più filosofo dei due. Ebbene proprio venti anni fa moriva di cirrosi epatica Hijikata, «nell'ultimo periodo della sua vita ormai in stato di putrescenza» secondo le parole del suo più illustre allievo Yoshito Ohno, divorato dal suo stesso abisso.
Dopo aver studiato la Neue Tanz tedesca si spostò a Tokyo ventiquattrenne nel '54, dalla lontana prefettura di Akita, terra che gli resterà dentro fino alla fine. Come altri della sua generazione nella capitale «fece quella devastante ma esilarante esperienza di ritorno allo zero assoluto, in una Tokyo rasa al suolo (…) vedere le rovine della città comportò una forte liberazione dai propri padri e dagli imperativi imperialistico-militari dell'epoca appena conclusa» come acutamente ha notato il critico Stephen Barber. Nel '59 assieme a Yoshito Ohno mette in scena Colori Proibiti di Yukio Mishima ma le sue influenze letterarie sono anche e soprattutto di derivazione francese, infatti legge e si ispira per le sue performance a Lautremont, Bataille, Genet, e all'Eliogabalo di Artaud, memorabile a questo proposito nel 1961 la performance di Nostra Signora dei Fiori di Genet, assieme a Kazuo Ohno, per le strade del distretto di Shinjuku e splendidamente documentata dal fotografo William Klein.
Durante gli anni sessanta collabora con alcuni registi d'avanguardia e non, come Eiko Hosoe con cui gira L'ombelico e la bomba A, Donald Richie Sacrificio, Takahiko Imura che riprende le sue performance, ma soprattutto con Teruo Ishii con cui girerà tra gli altri Edogawa ranpo taizen: Kyofu kikei ningen («Horror of a deformed man»). È in quest'ultimo che la sua poetica deflagrò nella pellicola, portando all'estremo la sua idea di danza in cui «il mio corpo vuole essere fatto a pezzi e nascosto in qualche freddo posto» un luogo dove «lascio una delle mie sorelle abitare il mio corpo. Quando devo concentrarmi su un pezzo di danza, la lascio cogliere nell'oscurità dentro di me». È del 1968 la sua più radicale performance, Hijikata Tatsumi to nihonjin – Nikutai no hanran («Hijikata Tatsumi e i giapponesi – La ribellione del corpo di carne») in cui appunto il suo nikutai (corpo di carne) esplode, si rivolta dall'interno, contro la modernità e le leggi che essa impone «per una società in cui la produzione prevale, l'uso inutile (senza fini) del corpo, ciò che io chiamo danza, è un taboo. Posso dire che la mia danza ha le stesse basi del crimine, dell'omosessualità maschile, delle feste e dei rituali: esibisce la propria inutilità in faccia alla società».
Negli anni settanta si ritira dalle scene dedicandosi al lavoro di coreografo, fondando la compagnia Kabuki del Nord. Proprio nell'ultimo periodo della sua vita aveva iniziato una collaborazione con il filosofo e traduttore Uno Kuniichi intitolata «Esperimento con Artaud» basata sulla registrazione radiofonica Per farla finita col giudizio di dio realizzata dal poeta francese nel 1948 e mai andata in onda. Inoltre stava preparando a Tokyo il suo rientro sulle scene dopo 13 anni di assenza con una sua personale rappresentazione del Giappone, sullo sfondo del monte Fuji e centinaia di ciliegi in fiore Hijikata avrebbe dovuto impersonare le divinità del tuono e del vento.

Categorie:nippodelirium Tag: ,
I commenti sono chiusi.